L’ODIO DI FRANCA VALERI PER IL FASCISMO

Scritto da Pietro Filomeno. Pubblicato in Libri

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Franca Valeri ci ha lasciato poco più di due mesi fa, il 9 agosto scorso, alla bella età di cent’anni. La nota e brava attrice, conosciuta soprattutto per la sua proverbiale interpretazione della “Signorina snob”, è stata anche una scrittrice, in particolare commediografa. A curare i suoi lavori teatrali, nel 2003, è stata Patrizia Zappa Mulas, attrice anch’essa. Di recente ha tracciato un ritratto, sul palco e dietro le quinte, della geniale attrice milanese (“Franca. Un’incompresa di successo”, Sem, pp. 160, euro 15), che sarà in libreria il 22 ottobre.
Nel libro compare l’ultimo racconto, rimasto sinora inedito, di Franca Valeri. Il numero dell’”Espresso” che è ancora in edicola  lo pubblica quasi integralmente (n. 42, 11 ottobre 2020, pp. 70-77). Si intitola “La sedia del nonno” e rievoca l’infanzia, i genitori e le leggi razziali. Lo abbiamo quindi letto in anteprima. Ci è parso di particolare interesse la parte relativa all’introduzione, nel 1938, delle leggi razziali e delle vicissitudini a cui andò incontro la sua famiglia.
Famiglia, a dire la verità, semi-ebrea. E per niente praticante. Alla maniera degli amici cattolici, che trascuravano la messa e le cerimonie connesse. Sua madre, cattolica, era addirittura del parere che «ormai sono tutti atei, anche i cattolici» (p. 74). E comunque, nella vana illusione di riparare la figlia da eventuali pericoli, la fece battezzare. I suoi nonni «erano già scomparsi alla soglia delle leggi razziali, non so come le avrebbero prese» (ivi).
Nonostante tutto, la sua famiglia riuscì a scampare miracolosamente allo stermino. Un coraggioso impiegato dell’anagrafe, a proprio rischio e pericolo, aggiornò i loro documenti con il cognome cambiato. Il padre e il fratello espatriarono in Svizzera. Lei e la madre, non potendo più rimanere a Milano, vennero aiutati da famiglie amiche, che le tennero nascoste nelle seconde case sul lago Maggiore. E quando anche lì le cose si misero male, ritornarono – con l’aiuto di un altro amico – a Milano. In un piccolo appartamento bombardato, dove rimasero tranquilli per alcuni mesi. Fino alla fine della guerra.
«Io covavo il mio odio per il fascismo e la mamma con il pensiero fisso ai nostri due in Svizzera, dei quali siamo riusciti ad avere solo poche notizie grazie a un altro conoscente … [ … ]. Quando abbiamo saputo  che Mussolini è stato arrestato e poi ammazzato, non vi dico quanto sono stata felice. Sapevo che non era un sentimento umanitario ma ho lasciato a casa mia madre terrorizzata e mi sono avviata con una folla verso piazzale Loreto, dove era appeso chi ci aveva reso la vita infelice per tanti anni…» (p. 76).
Una mattina – erano ancora in quella casa bombardata – sentono i passi di qualcuno che li chiama. Era il fratello Giulio, che ritornava dalla Svizzera prima del padre. «Giulio era scappato dal rifugio in cui era ancora trattenuto. La mamma era felice, aggrappata al suo bambinone che finalmente rivedeva, e aspettavamo di ritrovare papà. Eravamo sconvolte dalla gioia, la mamma in lacrime e piangevo anch’io … (pp. 76-75). Gioia comprensibile, dopo cinque lunghissimi anni in cui avevano vissuto sempre con l’ombra della morte sulle spalle.
La guerra era davvero finita. «Mi dava quella certezza il corpo appeso di chi è stato il responsabile della nostra disgrazia. E’ difficile dire i sentimenti che sono stati la guida della nostra resistenza. A poco a poco, è venuta la pace. Molto a poco a poco. Dopo un simile trambusto abbiamo ritrovato la vita, per me in particolare che ho iniziato la carriera teatrale. Che è stata lunga e fortunata … [ … ] (p. 77). La grande attrice aveva cent’anni, ma quel trauma era rimasto vivido nei suoi ricordi.
Pietro Filomeno
 

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