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« ALL YOU CAN DO IS PRAY»: ROHINGYA, LE VICENDE DI UN POPOLO SENZA TERRA

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« ALL YOU CAN DO IS PRAY»: ROHINGYA, LE VICENDE DI UN POPOLO SENZA TERRA

 Reportage a cura di ALESSIA LEONE *
Questo è il titolo con cui si apre il report annuale del 2013 di Human Right Watch, associazione non governativa che si occupa della difesa dei diritti umani e che da tempo segue Ie vicende dei Rohingya, etnia di fede musulmana che risiede in Myanmar, principalmente nello Stato di Rakhine, situato al confine con il Chittagong, una delle otto divisioni del Bangladesh.In Myanmar la situazione dei Rohingya, tra gli strati più poveri della popolazione del Paese, è sempre stata difficile poiché il governo non riconosce loro la cittadinanza in quanto li ritiene degli immigrati bengalesi musulmani arrivati con la colonizzazione britannica. L’89% dei birmani infatti pratica il buddhismo theravada, la forma più ortodossa della dottrina, mentre l’islam è praticato dal 4% della popolazione. In Myanmar, in base a una legge approvata nel 1982 durante la dittatura militare, i musulmani Rohingya non godono della piena cittadinanza e non hanno diritto di voto, in quanto non appartengono a una delle 135 minoranze etniche censite e ufficialmente riconosciute. Dal 1962 infatti, data del colpo di Stato che ha portato al potere i militari, le carte di identità dei cittadini birmani portano l'indicazione sia del gruppo etnico che della religione. I Rohingya sono doppiamente esclusi in quanto bengalesi e musulmani.
A partire dal 1982, molti Rohingya hanno ricevuto una carta provvisoria che certificava la loro identità ma non la cittadinanza birmana. Da quel momento, è iniziato un processo di verifica dei documenti, al quale molti Rohingya si sono sottratti poiché imponeva di auto-dichiararsi Bengali (originari del Bangladesh, quindi, immigrati irregolari), rinunciando di fatto alla propria identità. Dal giugno del 2016 quest’obbligo è venuto meno su indicazione di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991 e attualmente criticata consigliera di Stato del Myanmar (de facto Primo Ministro) e ministro degli Affari Esteri. Tuttavia, se la minoranza musulmana non è più costretta a dichiararsi Bengali, non può nemmeno definirsi Rohingya. La stessa Aung San Suu Kyi, infatti, consapevole del diffuso sentimento anti-musulmano, ha chiesto ai diplomatici stranieri di non usare il termine Rohingya, preferendo l’espressione più generica di «comunità musulmana dello Stato di Rakhine».  Ai Rohingya è impedito di muoversi liberamente all’interno del Paese a causa dei numerosi check-point delle truppe governative tatmadaw e vivono in campi sovraffollati fuori dalla città di Sittwe, capoluogo del Rakhine. Le persecuzioni contro i Rohingya iniziarono nel 2012 e scaturirono da atti di guerriglia dell’ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) contro posti di blocco dei tatmadaw e uffici governativi. Azioni condotte con armi rudimentali e non certo capaci di mettere in crisi le forze armate del Myanmar, ma che hanno suscitato una durissima reazione del governo appoggiato dalla maggioranza della popolazione, buddhista e particolarmente sensibile alla prospettiva di una minaccia del radicalismo islamico, che, come noto, si è notevolmente esteso al Sud-est asiatico, dal Bangladesh all'Indonesia alle Filippine. Il mancato riconoscimento della minoranza da parte del Governo, preo
ccupa alcune organizzazioni impegnate nel monitoraggio delle violazioni dei diritti umani in Asia, poiché In tutto il Rakhine si registrano da anni una malnutrizione diffusa, difficoltà nell’accesso all’educazione e al sistema sanitario, stupri, pestaggi, arresti arbitrari di adulti e minori, sparizioni, furti di bestiame e di mezzi, incendi di villaggi e uccisioni. Anche il fenomeno recente del land grabbing, che colpisce, oltre al Rakhine, anche altri stati del Myanmar dove vi siano forti interessi economici da parte di investitori esteri, si presenta con forme di violenza coatta contro le minoranze etniche, in modo particolare contro i musulmani, che vengono allontanati forzatamente dai tatmadaw dalle proprie terre e lasciati privi di tutele e risarcimenti.  In Myanmar esiste inoltre un movimento fondamentalista buddhista che si chiama «969», in senso cosmico inteso come l’opposto di «786» con cui si identificano i musulmani del Sud-est asiatico in riferimento alla bismilah «In nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso», versetto con cui si aprono tutte le sure del Corano. Il significato di «969», i cosiddetti «tre gioielli di Buddha» è in riferimento alle 9 virtù di Buddha, ai 6 attributi del suo Dharma (o insegnamenti) e alle 9 caratteristiche del Sangha (la comunità monastica). Tale movimento nazionalista è guidato dal monaco Ashin Wirathu, che fu incarcerato nel 2003 e condannato a 25 anni di prigione per incitamento all’odio razziale e poi rilasciato nel 2012 grazie a un’amnistia. Questo gruppo chiede il boicottaggio dei negozi musulmani e l’adozione di restrizioni sui matrimoni misti. Dopo la sua scarcerazione nel 2012, Wirathu guidò un gruppo di monaci per supportare il piano del presidente Thein Sein di inviare i Rohingya verso un qualsiasi altro paese che volesse accoglierli. In seguito scoppiarono degli scontri tra buddhisti e musulmani che portarono alla morte di numerose persone. Non di rado infatti, i sostenitori del Movimento 969 si sono resi protagonisti di attentati incendiari contro i villaggi musulmani e contro le loro attività e di linciaggi con il beneplacito del governo.  L’Ufficio dell’Alto Commissariato per i diritti umani dell’ONU (OHCHR), in uno dei suoi ultimi rapporti del 2019, ha registrato un livello di violenza contro i Rohingya inaudito e senza precedenti. Sulla base delle testimonianze raccolte, l’ONU ha parlato esplicitamente di «crimini contro l’umanità» perpetrati dall’esercito birmano e dai fondamentalisti buddhisti mentre l’Human Right Watch, nel rapporto del 2013, usa la definizione più incisiva di «pulizia etnica». Dall’inizio dell’ultima ondata di persecuzioni del 2017 si calcola che quasi 1 milione di Rohingya siano sfollati nei campi profughi del Bangladesh, mentre nel Rakhine ne restano intorno ai 600 mila. Il Bangladesh infatti è il luogo “sicuro” più vicino raggiungibile a piedi o via mare ove i migranti cercano rifugio dalle atrocità dei militari. Sebbene gli spostamenti principali avvengano ancora via terra, i migranti Rohingya hanno tentato di raggiungere la Malesia, l’Indonesia e il Bangladesh anche via mare, a bordo di barconi. Quando si fa riferimento al Mare delle Andamane, a sud-est del Golfo del Bengala e parte dell’Oceano Indiano, i termini della discussione sono molto simili a quelli utilizzati per affrontare il tema dei flussi migratori nel Mar Mediterraneo. Rotte dei migranti, chiusura delle frontiere, trafficanti di uomini, network criminali, abusi. Nelle acque di loro competenza, i Paesi ove maggiormente si indirizzano i migranti, spesso si rifiutano di portare avanti attività di soccorso in mare, pur avendo firmato almeno una delle convenzioni internazionali sul SAR (Search And Rescue). Il Bangladesh, per alleggerire la situazione ormai insostenibile dei campi di accoglienza, il principale dei quali è Cox’s Bazar, situato nel sud, in cui continuano ad arrivare profughi, ne ha iniziato la rilocazione sull’isola di Bhasan Char, emersa solo nel 2006 e situata nel Golfo del Bengala, soggetta a periodiche inondazioni che negli ultimi anni è stata arginata e sistemata con terrapieni e dighe. Sull’isola è stato costruito un nuovo campo che dovrebbe ospitare almeno 100.000 profughi che verranno spostati su base volontaria, anche se alcuni migranti intervistati sostengono di essere stati obbligati a partire. Attualmente il nuovo campo profughi sull’isola ospita oltre 3000 Rohingya.  Un’ultima inquietante sconfitta della gestione di Aung San Suu Kyi, è rappresentata dal rarefarsi delle libertà civili e culturali nel Paese che di democratico conserva solo il nome ufficiale. Il governo ha infatti in più occasioni fermato o detenuto blogger, giornalisti e personalità della cultura impegnati in attività poco gradite sul territorio nazionale. Il caso più eclatante e noto a livello internazionale è stato quello di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, giornalisti di Reuters che stavano indagando sul massacro di 10 uomini Rohingya, condannati a 7 anni di prigione con l’accusa di aver infranto una legge sui segreti di Stato e liberati solo a seguito dell’amnistia del presidente Win Myint dopo essere stati detenuti per circa un anno e mezzo.  La leader Aung San Suu Kyi è aspramente criticata non solo per la mancata presa di posizione contro il genocidio dei Rohingya ma anche per la totale chiusura verso la stampa libera e indipendente che dovrebbe essere assicurata in un Paese democratico. Proprio lei che subì sulla sua pelle la pesante oppressione della giunta militare birmana che, per metterle il bavaglio e impedirle di dialogare con il popolo, la costrinse a 15 anni di arresti domiciliari. Colei che per anni è stata un’icona della causa della libertà e dei diritti, oggi non solo si trova al vertice di un governo dittatoriale nelle forme, ma definisce prodotto di "disinformazione" le denunce che vengono formulate contro la repressione indiscriminata e la pulizia etnica nei confronti della minoranza musulmana. La questione Rohingya, ma non solo, è già di per sé l’emblema del naufragio del cammino verso la democratizzazione del Myanmar a cui tanto aspira Aung San Suu Kyi: si parla apertamente di genocidio e esodo forzato dell’etnia con dati che rasentano il milione di profughi.  Nel 2019 Abubacarr Tambadou, Ministro della Giustizia del Gambia, avvocato per i diritti umani ed ex membro del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, ha denunciato alla Corte Internazionale di Giustizia il Myanmar di aver commesso un genocidio contro la minoranza Rohingya. Tale procedimento è stato sollecitato in seguito alla visita condotta dal Ministro al campo profughi di Cox’s Bazar. Il Myanmar è firmatario della Convenzione sul Genocidio del 1948 (a cui ha aderito nel 1956), che non solo proibisce di commettere persecuzioni contro le minoranze, ma consente agli altri Stati firmatari di intervenire ponendo sotto accusa dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia o dinnanzi agli organi competenti delle Nazioni Unite il Paese incriminato di genocidio. La leader Aung San Suu Kyi, chiamata a comparire all’Aja davanti ai giudici della Corte Internazionale di Giustizia, ha respinto le accuse di genocidio indirizzate al governo birmano, in ragione dei crimini commessi nei confronti delle comunità Rohingya. L’assordante silenzio della leader ancora una volta si scontra con il suo obiettivo di una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia per il raggiungimento della quale necessita di mantenere lo status quo con la giunta militare.  La Corte si è espressa all’unanimità contro i reati commessi dalle forze militari birmane nel Rakhine. Sebbene la sentenza non sia vincolante, crea di fatto una base giuridica che potrebbe giustificare l’imposizione di sanzioni al governo birmano, mettendo Il Myanmar di fronte a una maggiore pressione internazionale. Tuttavia, il tempismo della visita di stato del Presidente cinese Xi Jinping, condotta il 17-18 gennaio 2020, va certamente a diluire l’impatto delle misure provvisorie della Corte Internazionale di Giustizia. I due Paesi, infatti, hanno firmato 33 accordi afferenti ai progetti della “Belt and Road Initiative”, tra cui uno che prevede la creazione di un porto in acque profonde nel Golfo del Bengala, proprio nello stato di Rakhine. Tale accordo è rappresentativo del fatto che il “principio di non interferenza” cinese continui a scontrarsi con gli strumenti tipici delle relazioni internazionali in Occidente. Ciò che garantirebbe l’effettiva attuazione delle misure del Tribunale Internazionale dell’Aja è il Consiglio di Sicurezza dell’ONU che ha ora il compito di vagliare l’operato della Corte e di decidere su come procedere. Decisione che, secondo i più, il Consiglio ci metterà diversi anni a prendere.
*Alessia Leone è laureata in Archeologia Orientale. Ha lavorato in vari scavi archeologici in Italia, Iran e Turchia. Ha partecipato a un  progetto universitario per giovani ricercatori all’Universitè de Nanterre/Paris Sorbone.  E’ autrice di numerose  pubblicazioni scientifiche partecipando in qualità di relatrice a convegni nazionali ed internazionali. 
 

Tags: mondo, popoli, terra, guerra, speranza

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